Nati tra la metà degli anni ’90 e il 2010, questi giovani stanno rivoluzionando il mondo del lavoro, sfidando il concetto tradizionale
Ho visto per una vita mio padre farsi il mazzo per il suo lavoro, uscire di casa alle 8, tornare per un pranzo veloce e rincasare alle 8 di sera. L’ho visto portare avanti anche i suoi impegni personali extra lavoro nel weekend e non l’ho mai visto riposare. Dopo 46 anni, l’ho finalmente visto andare in pensione, la quale ha ovviamente subito un ritardo. Ha passato la sua vita intera a lavorare per sostenere la sua famiglia, facendo molti sacrifici, sacrificando anche il tempo con me, mio fratello e mia madre. Per quanto possa essere infinitamente grata per tutto ciò che ha fatto, io non voglio vivere per lavorare.
Per noi, ragazzi nati tra gli anni ’90 e 2010, il lavoro non è solo un mezzo per il guadagno, ma un’esperienza che deve dare senso e soddisfazione. Al primo posto c’è il benessere personale, la ricerca di una realizzazione che vada oltre il mero stipendio. Come emerge da uno studio di Zety del 2023, gli iGen (altro nome per la Gen Z) considerano il lavoro parte integrante della propria identità, ma non intendono sacrificare la vita privata per esso.
Sviluppo personale, sicurezza economica, innovazione, impatto sociale e apprendimento continuo: sono queste le nostre priorità. Questo vuol dire: orari flessibili, assistenza sanitaria privata, opportunità di crescita. Valori che si riflettono anche nella nostra attitudine: il 41% è pronto a lasciare il lavoro se gli si chiedono straordinari, il 75% lo farebbe anche senza un’alternativa già pronta. E l’83% si definisce “job hopper”, cambiando lavoro con frequenza.
Questo approccio che mette al primo posto il nostro benessere più che il guadagno, può creare attriti con le generazioni precedenti. L’attrice Jodie Foster, ad esempio, in un’intervista al Guardian ha definito i giovani lavoratori “irritanti”, colpevoli di scarsa etica e incapacità. Capisco benissimo che sia difficile per le generazioni più grandi capirci, ma perché farci andare bene un modello di vita che ci fa sentire in gabbia?
Parole che hanno acceso un acceso dibattito, mettendo in luce il divario tra le aspettative della Gen Z e la realtà del mondo del lavoro. Un divario acuito dalla pandemia, che ha limitato le opportunità di lavoro flessibile e stage, esperienze cruciali per i giovani.
Ma le aziende, sfidate da questa nuova realtà, si stanno muovendo. Investono in programmi di riqualificazione e mentoring per colmare il gap generazionale, promuovendo diversità e inclusione. Perché le aziende con un team eterogeneo hanno più successo.
Per le aziende, la sfida è adattarsi a questa nuova cultura del lavoro, che mette al centro il benessere e la ricerca di un significato. Solo così potranno rimanere competitive in un mondo che evolve a tutta velocità.
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